«Ogni fiaba è uno specchio magico che riflette alcuni aspetti del nostro mondo interiore, e i passi necessari per la nostra evoluzione dall’immaturità alla maturità.» Bruno Bettelheim
Il brutto anatroccolo
di Hans Christian Andersen
“Nel nido di mamma anatra tutte le uova si erano aperte, tranne una.
Così, mentre i suoi graziosi anatroccoli gialli già pigolavano tra l'erba,
mamma anatra si impegnò a covare ancora l'uovo chiuso, finché non si aprì. Ne
uscì un anatroccolo grigio e sgraziato. Benché tutti deridessero l'ultimo nato,
mamma anatra aveva fiducia: nuotava bene, era di buon carattere e sarebbe
cresciuto. Se non era bello, pazienza, in fondo per un maschio è un fattore
secondario... Ma per il piccolo la situazione non era facile: galline e anatre
lo urtavano, il tacchino lo impauriva, il fattore lo prendeva a calci e i suoi
fratelli non perdevano occasione per maltrattarlo. Il brutto anatroccolo decise
di scappare, ma le cose non migliorarono. Una gallina gli chiese se sapeva
deporre le uova e un gatto gli chiese se faceva la ruota come i tacchini. Lui
non era in grado di fare niente di tutto ciò. Si allontanò ancora una volta,
mentre l'inverno cominciava a gelare gli stagni. Furono mesi lunghi e duri,
trascorsi al gelo tra la vita e la morte, ma alla fine il sole tornò a
riscaldare la terra e sullo stagno illuminato l'anatroccolo si fermò ad
ammirare la grazia di tre cigni superbi. Fu rapito da tanta grazia e una strana
tristezza lo invase: sapeva di non poterli avvicinare, anche loro lo avrebbero
cacciato. In quel momento, posato lo sguardo sull'acqua, si accorse che la sua
immagine era identica alla loro. Mentre i tre cigni gli andavano incontro per
accoglierlo, i bambini dalla riva lodarono la sua eleganza. Lui, il brutto
anatroccolo, era diventato uno splendido cigno.” (Per leggere la fiaba per
intero clicca qui: Il brutto anatroccolo)
Il brutto anatroccolo mette in
luce alcune delle difficoltà che ciascuno di noi incontra nel difficile e
precario percorso di identità. È un cammino pieno di ostacoli, contraddizioni e
tentazioni di omologazione al ‘gregge’, di prove da superare per giungere
all’ambita mèta: scoprire chi siamo. Molte delle nostre sofferenze nascono dal
disperato tentativo di identificarci con cose che non ci corrispondono proprio
come il nostro anatroccolo fa con le oche, la gallina e il gatto. A un certo
punto, egli si augura addirittura di poter solo vivere tranquillamente come
anatra, ma sa che non gli è permesso. Nessuna di queste cose è il suo vero Io.
Quando si resta troppo a lungo in
qualcosa che non ci corrisponde, la sofferenza diviene massima, ci rinchiude in
noi stessi in un luogo freddo, gelido come l’inverno. E’ qui che si rende
indispensabile un abbandono o una fuga. L’erranza è un tema fondamentale da un
punto di vista psicologico. È l’errare, (sia nel suo senso di vagabondare che
in quello di sbagliare) che conduce infatti, al raggiungimento di una vera
identità. Il nostro piccolo eroe va a cercare al di fuori del proprio ambiente
una ragione per essere e per vivere, ed è così che lui cambia il suo destino:
non restando dove è, trovando il coraggio di esplorare nuove possibilità.
Uno degli aspetti più
interessanti di questa fiaba è che ci ricorda che il cammino di accettazione di
sé è un fatto esclusivamente personale. Non riconoscersi, non darsi valore, in attesa che sia il mondo
ad attribuircelo, significa destinarci alla sofferenza o, nel migliore dei casi,
all’insoddisfazione.
L’anatroccolo pone fine alla sua
ricerca, trovando il suo posto nel mondo, nel momento stesso in cui si vede
riflesso nello stagno; solo così capisce di essere un cigno. È dunque lui che
scopre la sua vera natura, nessuno gliela rivela. E nel momento in cui lui si
vede, allora avviene anche il miracolo esterno (e non viceversa). Infatti, alla
sua accettazione corrisponde l’accettazione degli altri cigni che gli si
accalcano attorno a fargli festa mentre i bambini si complimentano dalla riva
per la sua bellezza.
Egli ha accettato la sfida e l’ha
superata. Accettare la sfida è un passaggio importante, che ci consente di non
continuare a vivere passivamente le difficoltà e non portarci dietro il passato
come una inutile valigia pesante; consiste anche nel non accettare più
l’immagine negativa (negativa in quanto non autentica) che gli altri ci
restituiscono, ma andare a trovare la propria immagine, lavorando sulle
caratteristiche e su quei tratti personali che caratterizzano l’identità di
ciascuno.
La trasformazione infatti, in
questa favola, sta nel poter finalmente scoprire la propria verità, la verità
su se stessi senza più accontentarsi del riflesso degli altri che è, spesso,
una fotocopia sbiadita di chi siamo veramente. E quando si trova il coraggio di
guardare se stessi, si scopre di essere cigni aggraziati e luminosi. Ma per
conoscere ciò che siamo è necessario non temere di ammettere tutto quello che
non siamo, anche se questo significa affrancarsi da ciò che abbiamo sempre
ritenuto importante ma che, probabilmente, ci tiene incatenati.
L’analisi di questa fiaba si ispira a un articolo di Lidia Fassio.
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