Ottimisti vs. pessimisti


Re·si·lièn·za/ sost. femminile
  1. Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.
  2. In psicologia, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.


La resilienza è la capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento. In ecologia e biologia, è la capacità di una materia vivente di autoripararsi dopo un danno, o quella di una comunità o di un sistema ecologico di ritornare al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che ha modificato quello stato. In psicologia, la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità. Sono persone resilienti quelle che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti.

Queste sono alcune delle definizioni che si trovano del termine ‘resilienza’. Io definisco la resilienza come la differenza sostanziale tra un ottimista e un pessimista, che affonda la sue radici nella capacità personale di rielaborare le esperienze, definendo di fatto il vissuto come positivo o negativo. 

Quando pensiamo a un avvenimento particolare della nostra vita abbiamo istintivamente una sensazione piacevole o spiacevole. Questa sensazione non dipende dal vissuto in sé ma dall’elaborazione che ne abbiamo fatto. Quello che ne deriva può essere un miracolo o una tragedia. Il miracolo avviene quando noi riusciamo a comprendere che un avvenimento, un fatto, se pur difficilissimo, ci è stato utile, perché - attraverso quell’esperienza complessa o drammatica - abbiamo capito qualcosa. In tal caso noi immagazzineremo quell’esperienza col segno +. La tragedia avviene, al contrario, quando ci convinciamo che tutto ciò che è capitato è stato inutile e pertanto archivieremo quell’esperienza col segno –.

La differenza profonda tra queste due modalità di elaborazione farà di noi una persona ottimista o una persona pessimista, una persona felice o infelice.

Perché nel primo caso, se riusciamo a dare un senso al nostro vissuto, compresa la sofferenza, penseremo che niente è inutile o gratuito, che è vero che a volte per capire ci vuole molto tempo e dobbiamo passare attraverso esperienze difficili ma che alla fine queste esperienze daranno un risultato, ci permetteranno di accedere a un maggior livello di consapevolezza. L’esperienza sarà di fatto quello che ci impedirà di commettere gli stessi errori. Avremo un magazzino di riserve a cui attingere ogni volta che ci capiterà di rivivere un evento simile al passato, un bagaglio di strumenti da mettere in campo che ci impedirà di ripetere l’intera sequenza necessaria per arrivare a capire qualcosa.

Nel secondo caso, se non riusciremo a dare un senso al vissuto, penseremo che tutte le esperienze sono inutili, che il dolore è solo dolore, e che  la sofferenza non ha scopo. Il risultato della nostra elaborazione ricadrà perfettamente sulla nostra realtà e noi vedremo esattamente quello che ci aspettiamo di vedere.
Sarebbe pressoché ingenuo infatti pensare che esista una differenza profonda, a livello di vissuto, tra le persone ottimiste e le persone pessimiste. Credere che le persone ottimiste siano tali perché hanno avuto una vita più facile è poco realistico, almeno secondo la mia personale esperienza.

Molto più realistico sarebbe valutare che alcune persone hanno difficoltà enormi a rielaborare le esperienze ed è per questo che hanno la sensazione, spesso la convinzione, che la loro realtà sia più difficile di quella di altri. Questi ‘altri’ in verità non sono persone più “fortunate” bensì persone più capaci di rielaborare esperienze, anche molto difficili, in chiave evolutiva dando loro senso e significato.

Un elemento importante di distinzione tra i due approcci è la lamentela. Per molte persone il lamento è un tema portante, un leitmotiv della loro esistenza e, di fatto, un alibi. Lamentarsi è infatti, quando reiterato e fine a se stesso, l’alibi per non fare nulla in virtù di ciò che non si è ricevuto (dalla madre, dagli altri, dalla vita). Ci si crogiola nel lamento per non dover cambiare. E’ il sintomo di come permettiamo al passato di impedirci di vivere il presente.

In conclusione, gli ottimisti, i resilienti, non hanno avuto una vita migliore dei pessimisti, hanno solo sviluppato la capacità di rielaborare le esperienze difficili in qualcosa di utile e costruttivo. Hanno capito che non sono i fatti, il vissuto reale, i responsabili di quello che siamo ma che è la modalità attraverso cui usciamo dalle situazioni che stabilisce il senso e la misura della nostra vita e di chi scegliamo di essere.

Perché possiamo scegliere di ‘assorbire un urto senza romperci’ (il che significa senza rompere la nostra fiducia nella vita e nella nostra possibilità di essere felici) o possiamo rimanere inermi di fronte alle sfide della vita scegliendo di pensare che qualcosa o qualcuno si accanisce contro di noi. Tutto ciò dipenderà da come avremo rielaborato il passato.

Nel tema natale la capacità di rielaborazione delle esperienze si può dedurre dall'analisi delle case III e IX, legate al pensiero logico e a quello associativo e alla nostra capacità di introiettare nozioni e trasformarle in esperienze di vita e in pensiero personale. 

Ricordatevi che il tessuto delle cicatrici è più resistente di quello normale.

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