Marte: rabbia, aggressività, offesa e difesa.

Esistono mondi in cui la violenza, anche solo nella sua forma di aggressività, è socialmente accettata e tollerata, anche se definita, almeno a parole, ‘sbagliata’. Non parlo dei grandi conflitti mondiali e delle guerre economiche (che pure sono un esempio più che egregio di violenza legittimata) parlo di contesti ordinari e familiari.

Non dico, come sarebbe facile sostenere, che la violenza sia sbagliata a prescindere. La violenza è una funzione come le altre e come tale ci sono situazioni in cui è legittima o addirittura opportuna. Nel caso io venissi aggredita da un malvivente avrei bisogno di mettere in campo la violenza e chiamare a raccolta tutta la mia aggressività per mettermi al riparo e sopraffare  il mio aggressore. Questo è certamente un utilizzo della funzione aggressiva sano, rappresentata dalla capacità di difesa che a volte, si spera in casi veramente rari, può essere realizzata solo attraverso la violenza. (Mi piace pensare a un mondo che vada nella direzione di essere capace di risolvere i conflitti ricorrendo sempre meno alla violenza, e in cui la capacità di affermazione sia sufficiente a salvaguardarsi e il ricorso all’aggressività non sia più necessario, un mondo in cui la forza non sia sinonimo di sopruso ma temo che per quello ci voglia ancor un po’).

Ciò a cui mi riferivo inizialmente sono contesti famigliari e ordinari in cui si tollera, pur lamentandosene, un abituale ricorso alla violenza (che non necessariamente deve arrivare ad essere fisica) declinata in vari modi, quali aggressività verbale, insulti, ingiurie ma soprattutto una sottile, quanto persistente, sensazione di disagio/paura che non ci fa sentire liberi di reagire o, più semplicemente, di agire in conformità a ciò che riteniamo giusto (o, almeno, più giusto per noi). E’ la sensazione, a malapena percepita e raramente consapevolizzata, di coercizione e di ricatto (fisico/emotivo/psicologico) per cui istintivamente sappiamo (o pensiamo) che è meglio tacere, accettare, ignorare, anche solo per "quieto vivere".

Ogni volta che qualcuno ci aggredisce, in qual si voglia forma, invadendo il nostro spazio psichico e noi non mettiamo quell’aggressore fuori la porta (materiale o metaforica che sia questa porta) noi stiamo abdicando alla nostra capacità di difesa, al nostro diritto alla salvaguardia, all’esercizio della nostra identità. E sarebbe opportuno porsi la domanda su quale riteniamo sia il prezzo che siamo disposti a pagare in cambio di un'apparente tranquillità.

Ogni volta che noi accettiamo un sopruso,  per quanto minimo, stiamo contrabbandando un pezzo di noi. E’ una ferita che lascia una cicatrice nell’anima. 

Non è un caso che in astrologia, il principio di violenza, così come quello di affermazione di sé, siano entrambi rappresentati da Marte. E non è un caso che sia l’offesa che la difesa facciano capo a Marte. Perché il principio marziano è quello che mettiamo in campo ogni volta che noi diciamo basta a un’invasione che può causarci un danno fisico, emotivo o psicologico.

Ma il vero danno sta nel fatto che molte persone sono compromesse al punto da non riconoscere neanche più che vi sia un danno, includendo la “violenza” nella loro quotidianità come fosse un evento “normale”. Perché ci convinciamo che la violenza è quando ci fanno un occhio nero, mentre è violenza tutte le volte che qualcuno alza la voce non permettendoci (direttamente o meno) di affermare il nostro punto di vista o costringendoci, come unica alternativa, a gridare noi stessi.

Ogni volta che tolleriamo un eccesso di aggressività, noi stiamo di fatto, volontariamente, rinunciando al nostro diritto di affermarci nel mondo, delegando la nostra forza, abbandonando noi stessi/e.

Saper riconoscere lo sconfinamento, l’attacco, la portata del danno e non lasciare che l’assalto, per quanto piccolo all’apparenza, passi inosservato ‘normalizzandolo’, è il primo, indispensabile, passo verso una sana riappropriazione della nostra identità, dignità e del nostro diritto di stare al mondo.

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